Translagorai in 24h in autosufficienza

Articolo scritto da: Giovanni Ludovico Montagnani

2020, non è l’anno delle gare.

C’è il Covid, il lockdown, ma anche qualcos’altro. Il periodo passato in casa mi ha fatto rendere conto ancora di più della precarietà della nostra società, e le urla inferocite dei restoacasisti che mi insultavano dai balconi quando raggiungevo in bici l’ufficio mi hanno insegnato che il nostro tessuto sociale è assai più fragile di quello che pensiamo.

Cosa c’entra questo con le gare? Ritengo che la competizione tra uomini sia figlia dello stesso desiderio di superiorità che consuma le nostre esistenze. Lavoriamo di più per guadagnare di più, guadagniamo di più per comprare di più e sentirci più fighi. Ci alleniamo di più per competere meglio e per sentirci più fighi di qualcun altro. Di base non c’è nulla di male nel voler primeggiare, ma semplicemente la quarantena mi ha lasciato il desiderio di ridurre il desiderio di competizione, imponendomi l’utilità sociale come più importante.

È vero, ci sono gare che non ho corso con quello spirito: competizioni corse per la gioia di percorrere un bel tracciato, di condividerlo con altri, che stessero facendo il tifo o correndo con me.

In quel caso, la gara non necessiterebbe del servizio cronometrico, del pacco gara, della medaglia finisher, delle premiazioni, la gara sarebbe una festa del percorso, una celebrazione senza competizione.

L’idea di correre la Translagorai in 24 ore in autosufficienza è figlia di questo sentimento: si tratta di un percorso che è stato affrontato da altri con lo stesso spirito, con voglia di mettersi in gioco ed esplorare delle montagne rimaste lontane dal turismo alpino di massa.

73 km e 5000 metri di dislivello su sentieri mai percorsi non sono uno scherzo da affrontare in autosufficienza e da soli, quindi anche arrivare in fondo, senza guardare al tempo, sapevo mi avrebbe regalato una grande soddisfazione.

Dopo essermi fatto passare la traccia GPS e averla caricata sull’orologio ho passato un paio di giorni indeciso se affrontare il percorso, ero in montagna con mia figlia e la mia famiglia sull’altopiano del Renon, e mi chiedevo chi me lo faceva fare di farmi portare fino in Val di Fassa per poi farmi ripescare a Vetriolo Terme. Chi mi conosce sa quanto sia restio a far muovere una macchina (anche se è elettrica) solo per andare in montagna, ma il richiamo della sfida è più forte e decido di partire.

I danni della tempesta Vaia, salendo verso passo Rolle.
I danni della tempesta Vaia, salendo verso passo Rolle.

Sono partito da Passo Rolle alle 10 e 20 di Domenica 26 Luglio, e i primi 4 chilometri li percorro a fuoco per lasciarmi alle spalle il rombo osceno delle moto che usano il passo come se esistessero solo loro, e la gente vada in montagna per sentire il loro frastuono.

guardando indietro verso il passo, si sente ancora il rombo delle moto
Guardando indietro verso il passo, si sente ancora il rombo delle moto

Dopo un paio d’ore mi rendo conto di aver perso per strada il telefono e considerando la difficoltà nel ritrovarlo (se l’avessi perso in partenza?) rinuncio a tornare indietro e non conoscendo bene la toponomastica devo guardare spesso l’orologio per capire quale sentiero percorrere. Passano 3 ore, sono un po’ dispiaciuto per il telefono, e il percorso per ora non mi sta piacendo: noiose pietraie e un fondovalle troppo vicino.

Raggiungo il Dente di Cece, una struttura rocciosa interessante, e il cervello comincia a lavorare in “modalità ultra” perdendosi in pensieri sognanti. Dopo un paio d’ore mi fermo al rifugio Cauriol, dove vengo accolto con meraviglia e mi viene prestata una mappa, per affrontare la notte in sicurezza.

Riparto e raggiungo dopo poco due ragazzi che stavano facendo anche loro la traversata ma a tappe. Chiedo l’oro di mandare un messaggio a mia moglie per segnalare l’orario di arrivo (ahimè le 5, mi accorgo di essere andato lento). Parlo con loro di passo Manghen e mi convinco che si tratta dell’arrivo (in realtà io sarei dovuto arrivare a Panarotta, 27 chilometri più tardi.

il dente di Cece stimola desideri arrampicatori.
Il dente di Cece stimola desideri arrampicatori.

Comincia a calare la sera, una lieve grandinata mi rinfresca, le nuvole mi vorticano intorno danzando e sto benissimo, corricchio in piano tra le trincee della prima guerra mondiale (i Lagorai segnavano il confine con l’Austria) . Penso a quanto lavoro e a quanta fatica umana sia stata spesa per costruire quelle trincee di sasso, rimaste utili per meno di due anni.

le nuvole mi danzano intorno.
Le nuvole mi danzano intorno.

Dopo qualche ora arrivo al bellissimo lago delle Stellune, ormai il sole sta tramontando e un campeggiatore sta andando a dormire nella sua tenda. Mi vede e mi dice che ormai manca pochissimo al passo Menghen, sarei arrivato in meno di 1 ora e mezza considerando il mio ritmo. Gli chiedo se posso scrivere ancora a Francesca per riaggiornare il tempo di arrivo ma purtroppo non prende il telefono. Mi eccito, sto camminando da 10 ore ma inizio a correre. Non penso neanche a chiedergli un caffè o un pezzo di cioccolato.

il lago delle Stellune.
Il lago delle Stellune.

“Ho fatto il record!” penso, e mangio tutto il cibo che mi avanza.

Sono le 10 e mezza. Raggiungo il passo, e il relativo rifugio, urlo per farmi aprire ma nessuno mi apre. Avrei dovuto solo telefonare a Francesca e farmi venire a prendere in anticipo. Guardo i dati dell’orologio e penso: “solo 45 km, che strano dovevano essere 73..” Controllo la mappa che mi ha dato il rifugio, finisce a passo Menghen, non vedo dov’è Veriolo Terme e immagino sia li sotto da qualche parte. Guardo l’altimetria sull’orologio, ma il cursore è poco oltre la metà.

Capisco di non essere arrivato, ma aver solamente poco più che scollinato. Davanti a me, che sono senza cibo e senza telefono, si presentano 28 km al buio, potendo seguire solo la traccia sull’orologio.

un selfie prima di mettere via la macchina fotografica.
Un selfie prima di mettere via la macchina fotografica.

A questo punto, un po’ barcollando lo ammetto, mi rimetto in cammino nel buio. Supero 5 o sei passi e comincio avere fame, tantissima! Mangio dei fiori di tarassaco, delle bacche di ginepro, dei mirtilli, ma la fame è tanta e la preoccupazione di andare in crisi prima dell’arrivo comincia ad essere forte.

Trovo un rifugio sul percorso, chiedo a mezza voce per non disturbare gli ospiti se qualcuno può aprire la porta. Busso con forza, ma non trovo nessuno.

Faccio un giro sul retro e trovo i bidoni dell’umido, come un procione affamato mi metto a rovistare e come per magia trovo un bel pezzettone di crostata. Lo mangio con gusto.

Riprendo e sbaglio strada, ormai mancano 80 minuti alle 5, e il pensiero è fisso su Francesca che non volevo far aspettare in ansia da sola in un parcheggio.

Ho un forte dolore al ginocchio, la bendelletta ileotibiale si è infiammata, le discese sono lente e sofferenti. Uno veramente tanto i bastoncini, quasi come fossero stampelle, per fortuna è buio e nessuno mi può vedere in questa progressione sgraziata.

Sono le 5, mancano ancora 7 km praticamente tutti in piano, inizio a correre nonostante il dolore.

Arrivo, sono quasi le 6, nel parcheggio non c’è nessuno. In lontananza, l’alba illumina con una luce magica i boschi distrutti dalla tempesta Vaia del 2018. Terribile emblema della crisi climatica.

“Babiiiiii” grido nel parcheggio deserto chiamando francesca, immobilizzato dal dolore al ginocchio.

Lei invece mi stava aspettando preoccupatissima al passo Menghen da due ore (li le avevano detto che sarei arrivato, nonostante la traccia del mio gps diceva Panarotta), ma io non lo sapevo. Questa storia e le sberle che mi sono preso dopo, per aver perso il telefono per strada, ve le racconterò forse un’altra volta.

Giovanni