L’idea è nata l’autunno del 2020: appena terminata l’estate, durante la quale avevo
sperimentato un viaggetto in bici fino a Berna, per andare a trovare un’amica.
La piccola avventura era durata solo tre giorni, e sempre su asfalto, ma mi aveva dato un
assaggio di bikepacking e aveva alimentato il mio desiderio di organizzare qualcosa di
simile.
Soprattutto, avevo voglia di un lungo viaggio in solitaria.
Una delle mie principali preoccupazioni era trovare un posto sicuro dove viaggiare da sola, e un video visto per caso sull’Islanda mi accese la lampadina.
L’idea di attraversare il cuore dell’Islanda, e in particolare di completare la traversata
completa Ovest-Est entrò nella mia testa… ciò significava passare dal centro dell’isola,
ovvero il deserto freddo più grande d’Europa.
Avevo in mente di voler fare un percorso prevalentemente gravel, ma il bikepacking in mountain bike era ancora più allettante. Per fortuna, avevo già una buona bici a disposizione, ovvero la mia amata Scott Spark WC del 2019.
Iniziai a informarmi e pian piano un’idea prese forma, cominciai a inviare email alla ricerca di sponsor, ma nella mia testa era ancora tutto molto astratto. Solo un paio di mesi dopo,
quando effettivamente cominciai a ricevere riscontri, mi resi conto che la cosa si stava
davvero realizzando.
Da lì fu un crescendo di ricerca di attrezzatura necessaria, di sponsor, acquisto voli, contatti
di guide islandesi, studio di mappe, organizzazione logistica…
Non avevo mai fatto un viaggio in bikepacking di lunga durata, ma le esperienze di trekking
mi aiutarono molto nell’organizzazione del cibo e dell’attrezzatura.
Poi, finalmente, dopo una settimana a fare i bagagli e acquisti last minute, il giorno della
partenza.
Dopo tutta la frenesia pre-partenza, il viaggio in sé sembra la parte meno complicata.
Il mio percorso si dirigeva prima nei selvaggi fiordi dell’Ovest, lungo la costa battuta dal
vento, fino a raggiungere Bjargtangar, l’estremo Ovest dell’Europa.
Dopo Reykjavik, Buðardalur era uno dei pochissimi luoghi dove fosse possibile acquistare
rifornimenti.
Mi aspettavano montagne a picco sul mare, vascelli naufragati e colonie di uccelli marini, e
più sorgenti termali che villaggi.
Quello che sulla mappa sembra un breve tratto, tra Buðardalur e Bjargtangar, sono in realtà
250km di una tortuosa strada mista, che entra in ogni fiordo e supera molti passi, non molto alti ma con pendenze tra gli 11% e i 16%.
Riuscii sempre a trovare spot per la mia tenda, evitando le poche abitazioni che andavano
scomparendo man mano che mi dirigevo a nord-ovest…
Una sera, sotto la peggiore pioggia che incontrai, mi trovavo lungo una costa scoscesa e
battuta dal vento…proprio in quel momento vidi una casa abbandonata poco distante. Una
traccia invasa dalle erbacce la raggiungeva, nessuna recinzione,c’era un albero morto e
contorto a lato, sembrava il set di un film dell’orrore. Dopo essere riuscita ad entrarvi, ho
visto un lungo corridoio scuro, la scala a chiocciola che saliva al piano di sopra, le finestre
bloccate con assi… ciliegina sulla torta, un uccellino stecchito in mezzo a una delle stanze.
Avevo un po’ paura, ma il vento ululava fuori… per fortuna non viene mai buio a luglio in
Islanda!
Un’altra volta dormii sotto una tettoia a lato strada, con la compagnia di una pernice, e il
mattino dopo ebbi la gioia di scoprire che dal lato opposto della strada c’era una piscina
termale in cui fare il bagno.
Il giorno che raggiunsi Bjargtangar e cominciai effettivamente la mia traversata Ovest-Est
passai tutto il giorno a pedalare contro un furioso vento contrario, procedendo a meno di 10km/h, ero esasperata.
La seconda parte del mio viaggio consisteva nel ripercorrere la strada fatta fino a
Buðardalur, e da lì addentrarmi nel vero cuore selvaggio dell’Islanda: le Highlands. Gli altopiani dell’entroterra conosciuti per le distese di sabbia nera, i ghiacciai all’orizzonte, i
fiumi gelidi e l’assenza di strade.
Tutto ciò che si può trovare sono delle tracce per fuoristrada, sconnesse e con numerosi
guadi, che sono gli ostacoli più pericolosi e la mia principale preoccupazione.
Nessuna abitazione, nessun punto di rifornimento.
Per me, quindi, l’inizio dell’avventura incominciò lasciando Buðardalur, con l’ultimo
supermercato che avrei incontrato per almeno nove giorni.
Con le borse pienissime, buste di cibo liofilizzato ficcate in ogni fessura, e finalmente
l’abbandono dell’asfalto e del relativo traffico. Mi ricordo bene il cancello da aprire e la traccia sconnessa che si inerpicava su una collina: inizialmente vi passai davanti senza vederla, dovetti tornare indietro per trovarla.
Fu una transizione improvvisa: un attimo prima ero su una strada asfaltata e trafficata, dopo un paio di tornanti mi trovavo in mezzo a un altopiano muschioso nel silenzio totale.
Da lì in poi fu un graduale inoltrarsi nel wild: prima ero in terreni di allevamento, poi rare fattorie abbandonate; man mano la vegetazione diminuiva, finché non mi trovai in una vasta distesa di gravel grigio che occupava tutto l’orizzonte… ero nel nulla più totale. La traccia era segnata da una fila di pali infissi nel terreno, una fortuna, dato che spesso le impronte di pneumatici non erano nemmeno visibili.
I primi due giorni nelle Highlands incontrai il peggior terreno: sassi, sassi e colate laviche
solidificate. Pedalare era una vibrazione continua, procedevo a meno di 10 km/h con molto
sforzo, i primi guadi non erano pericolosi, ma sufficienti a tenere i miei piedi bagnati tutto il
giorno.
Inoltre, la fame! Temevo di impiegare più tempo del previsto a completare la traversata, ero solo all’inizio, e quindi dovevo razionare ogni pasto.
Il pezzo di attrezzatura che più ho amato in Islanda? Decisamente il mio gore tex.
Infatti, come mi ero aspettata, moltissima pioggia, e se non stava piovendo, tirava vento.
Per fortuna la mia tendina monoposto sopportó bene tutte le intemperie, una volta montata
mi sentivo a casa.
La parte migliore della giornata era piazzare la tenda nei buoni spot, che danno
soddisfazione: davanti a un enorme ghiacciaio, sulla sabbia nerissima.
Inoltre decisi di portare un pannello solare Solbian, che inaspettatamente funzionò
egregiamente e rese inutili i due powerbank che avevo con me.
Le Highlands però regalano anche momenti indimenticabili. Il tratto più mozzafiato è
sicuramente tra Laugafell e Askja. Pedalare tra enormi ghiacciai, alture di rocce laviche
frastagliate e inaspettate lingue di muschio verde tra le colline. Lì incontrai i peggiori guadi
della mia traversata, temetti di non poter procedere.
In mezzo a questo tratto, nel parco nazionale del Vatnajökull, c’è Kistufell hut, un riparo di
emergenza a ridosso del ghiacciaio Vatnajökull. Era la zona più in altitudine del mio viaggio.
Vi arrivai a mezzanotte dopo 13h di pedalata, le ultime in uno stato gioioso ed esaltato
probabilmente indotto dalla fatica.
Il giorno dopo giunsi tardi ad Askja, con il suo famosissimo lago termale e i suoi turisti.
Quante persone! Mi presi mezza giornata per riprendermi, mangiare doppie razioni, e riuscii
perfino a comprare un paio di tavolette di cioccolata da una ranger.
Da lì in poi fu un graduale uscita dalle Highlands, verso la civiltà.
Il mio arrivo era a Dalatangi, il punto più a Est dell’isola, in fondo a uno scenico e selvaggio
fiordo, Mjóifjörður: un passo sterrato al 18% di pendenza, pareti verticali da cui cadevano
decine di cascate, una vista stupenda. Pur essendo ormai Agosto, c’erano ancora macchie
di neve. La strada peggiorava man mano che mi avvicinavo al mio obiettivo, arrivai tardi al
faro di Dalatangi, e ovviamente c’era molto vento, ma per mia sorpresa scoprii che il vecchio faro era stato trasformato in riparo, con un letto…che lusso!
Ero stanca, ma avevo un letto, finalmente potevo mangiare quanto volevo, e non vedevo
l’ora di lavarmi.
Bene… ora mi mancavano solo un migliaio di chilometri per ritornare a Reykjavik!